Era una mattina di prima estate, quando il caro amico Federico mi scrisse: “Marco dovresti scrivere una articolo per tutti gli amici appassionati di calcio”. Di fronte alla richiesta, senza troppi indugi, risposi “Federico parliamo dei cosiddetti “padroni” dal calcio, raccontiamo della pubblicità nel calcio attraverso le sponsorizzazioni partendo da ciò che avvenne in origine, spiegando i motivi per cui alcune squadre, anche di elevato lignaggio, scelsero di abbinare la propria denominazione, ad esempio, ad una casa automobilistica ovvero ad un’industria alimentare o tessile”.
Il mio intento era quello di suscitare l’interesse di tutti i calciofili parlando di un argomento che nasconde risvolti talvolta poco noti ma che sono la chiara evidenza dei cospicui investimenti di taluni magnati fatti per pura passione o, soprattutto, per meri progetti imprenditoriali.
Questo intento, ossia quello di ricevere profitti legandosi ad uno sponsor, era un obiettivo fin dagli primordi del calcio in Italia, soprattutto per la popolarità di tale sport, “de facto”, dopo gli incerti avvii agli inizi del 1900 considerabile quale “sport nazionale”. A fermare, tuttavia, le mire di diverse società calcistiche vi fu la Federazione Italiana Giuoco Calcio che, a differenza di quanto invece accadeva in altre discipline sportive in naturale simbiosi con le sponsorizzazioni (ad esempio il ciclismo), proibiva ai club nazionali di “adornare” gli indumenti di gioco con marchi estranei al calcio, anche se relativi alle case produttrici delle divise.
I primi segnali di un’evoluzione si registrarono nel 1925 anno in cui il regime fascista dispose l’istituzione dell’Opera Nazionale del Dopolavoro che, per definizione riportata nel proprio Statuto, si prefiggeva di “…curare l’elevazione morale e fisica del popolo, attraverso lo sport…”. Avvalendosi di tale possibilità diverse aziende crearono la propria squadra di calcio che era composta da propri dipendenti oppure contribuirono, in particolare a livello dilettantistico, ad affiancare il loro nome a squadre già esistenti. Sono questi i casi del B.P.D. Colleferro (dopolavoro dell’azienda Bombrini Parodi Delfino sita nella cittadina laziale di Colleferro) e del Marzotto Valdagno (dopolavoro del lanificio vicentino Marzotto, noto come Dopolavoro Aziendale Marzotto Valdagno e, successivamente, come Marzotto Valdagno). Si era, tuttavia, ancora molto lontani dal poter considerare questi abbinamenti come sponsorizzazione ma è innegabile che la nascita della citata istituzione gettò le basi per il futuro abbinamento.
Forti delle iniziative delle pioneristiche associazioni nate sotto l’egida dell’Opera, Nazionale Dopolavoro e nell’intento di aggirare i divieti posti dalla Federazione calcio, prese piede, tra i club calcistici, la possibilità di affiancare il nome di un’azienda alla denominazione della squadra. Infatti, all’epoca – come oggi – nessun veto era previsto nei confronti del nome della squadra che poteva essere scelto liberamente così come lo stemma. Nacquero così a Torino, durante gli anni della seconda guerra mondiale, la Juventus CISITALIA ed il Torino FIAT, connubi poi sciolti alla fine del citato conflitto.
Il fine della creazione di tali compagini era quello di proseguire l’attività agonistica in una situazione d’emergenza, evitando, soprattutto, la chiamata alle armi ai propri tesserati, trasformandoli in “calciatori-operai” in modo da non farli deportare. L’emergenza della situazione fece, pertanto, superare anche le barriere campanilistiche creando un connubio TORINO – FIAT inimmaginabile ai giorni nostri. D’altronde, come l’Avvocato Gianni AGNELLI ricorderà in una sua intervista “…io stavo nell’esercito, in guerra, avevo altri pensieri e problemi, altro da fare, da patire, da superare…”, la sua famiglia, in quel periodo, si distaccò momentaneamente dal club bianconero. In aggiunta vi è da rimarcare che mentre la Juventus, a seguito del connubio con CISITALIA, non introdusse varianti sul proprio stemma e sulle maglie, il TORINO, invece, appose sulle sue casacche granata, nel 1944, uno stemma riportante il logo della FIAT.
Dopo le prime schermaglie, nel dopoguerra, anche in considerazione della carenza di specifiche norme al riguardo, la pratica della sponsorizzazione inizia a diffondersi in maniera sempre maggiore. Tra gli esempi più rilevanti e duraturo, quello del Lanerossi Vicenza sodalizio che si contraddistinse fregiando, con la caratteristica lettera “R”- fino alla fine degli anni 80- la propria maglia ed i gagliardetti.
Questa tradizione, interrotta negli anni 90, venne poi nuovamente ripresa in occasione del centenario del club. Analogamente alla compagine vicentina, altre Società portarono alla ribalta binomi che oggi costituiscono memorabile ricordo della storia calcistica nazionale. Tra gli altri citiamo il Simmenthal-Monza (sodalizio attivo nel periodo 1955 – 1964, l’Ozo Mantova (squadra della Società petrolifera OZO), il SAROM Ravenna (compagine che rappresentava una Società di raffinazione con sede in Ravenna) nonché lo Zenit Modena, appartenente ad una Società cremonese produttrice di carburanti e lubrificanti. Vi furono anche altri unioni che non ebbero la stessa fortuna e durata di quelli descritti. Ne è un esempio il Talmone Torino, abbinamento realizzato nella stagione 1958 – 1959 tra i granate e la nota azienda dolciaria piemontese e che ebbe la durata di una sola, nefasta, stagione culminata con la retrocessione in serie B del Torino, proprio in occasione del decimo anniversario della tragedia di Superga.
Dalla successiva stagione scomparì dalle casacche granata la grande lettera “T” bianca che richiamava la citata ditta.
A dimostrazione della diffusione del “fenomeno” anche nelle serie minori vi è da citare esempi, più o meno duraturi, di abbinamenti come nel caso della Acquapozzillo Acireale, squadra sponsorizzata dalla locale azienda produttrice di acqua ed antesignana dell’attuale ASD ACIREALE e dell’ASTI Ma.Co.Bi, squadra in cui militò, nei primi anni settanta anche Giancarlo ANTOGNONI.
Soltanto a partire dagli anni 60, la FIGC, al fine di limitare il sempre più crescente ricorso a nuove unioni tra squadre calcistiche e aziende sancì, almeno per le squadre militanti nei campionati di vertice, il bando di questa pratica ad esclusione del Lanerossi Vicenza che, in virtù di una speciale delega continuò a mantenere la sua storica denominazione. La pratica dell’abbinamento, in tempi più recenti, farà una sua apparizione con la squadra del Fondi di proprietà dell’Università Nicolò Cusano, facendo nascere nella stagione 2016-2017 l’Unicusano Fondi che terminò di esistere alla fine della stagione per poi rilevare, nella stagione sportiva 2017 – 2018 la Ternana che per tale passaggio assunse la denominazione di Unicusano Ternana.
A latere giova anche ricordare i casi di alcune squadre riportanti nella propria denominazione il nominativo della proprietà. Citiamo in merito, restando nell’ambito della regione Lazio, la Lodigiani, squadra aziendale della omonima Società edile LODIGIANI oppure altre compagini come il Paluani – CHIEVO ed il Del DUCA – Ascoli.
Alla fine degli anni 70 le Società calcistiche si fecero sempre più riluttanti nei confronti dei divieti posti dalla FIGC agli sponsor ed inseguirono anche stratagemmi particolari pur di aggirare i veti in essere. Tra questi citiamo il caso dell’udinese del patron SANSON (proprietario dell’omonima azienda produttrice di gelati) che nella stagione 1978 – 1979 – per la prima volta in Italia – fece apparire, sui pantaloncini della divisa da gioco il nome dell’azienda aggirando il divieto che faceva riferimento esclusivamente alle maglie e non agli altri capi della tenuta da gioco.
Udinese Calcio 1978-79
(fonte Wikipedia)
Il tentativo venne prontamente “rintuzzato” dalla FIGC che ordinò l’immediata rimozione della scritta comminando anche una corposa multa alla squadra friulana. No fu però questo il cosiddetto “fuoco di paglia”. Ad agosto del 1979, con il Perugia di Franco D’Attoma cadde, infine, l’ultimo tabù. Il magnate umbro, nell’intento di reperire le risorse finanziarie necessarie per il trasferimento al Perugia di Paolo ROSSI, sottoscrisse un accordo con il gruppo Buitoni – Perugina per far apparire sulle maglie del Perugia il nome del pastificio PONTE.
Il machiavellico stratagemma a cui si ricorse fu anche sugellato dalla creazione di una Società ad hoc, la Ponte sportswear che figurando come sponsor tecnico degli umbri e con lo stesso logo dell’azienda alimentare comparì sulle divise da gioco dei grifoni. Era la prima maglia di una squadra di calcio italiana sponsorizzata.
Negli anni seguenti molte altre Società seguirono l’esempio del Perugia (ad esempio Cagliari, Genoa e Torino) fino ad arrivare alla stagione 1981 – 1982 in cui la FIGC consentì finalmente l’esposizione degli sponsor sulle casacche della maggioranza delle squadre di serie A e B.
In dado era tratto e da quella stagione – sempre in maniera maggiore- le (una volta) immacolate casacche dei nostri beniamini, diventarono spazi a disposizione di sponsor più o meno benefici.
Articolo originale su gli eroi del calcio